Interventi al 46° Congresso Nazionale Pri
Roma, 25-26-27 febbraio 2011

Luca Ferrini
Caro Segretario, Cari Amici Repubblicani, l’ultima volta, al Consiglio Nazionale, ho esordito citando Lenin; oggi voglio cominciare citando il grande Totò.

Lui e Peppino sono a Milano, fermano un vigile urbano e gli chiedono: "Mi scusi: per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare?"

Ecco, per molti amici questo è l’interrogativo del Congresso. E, da questo Congresso, si attendono una risposta netta e precisa.

Ho l’impressione che non sarà così.

Ma, mi chiedo io, è davvero questa la prima e più importante domanda che dobbiamo porci?

Secondo me è soltanto una di queste; e, oltretutto, non è nemmeno la prima e la più importante.

Prima di interrogarci sulle vie da percorrere per ottenere l’affermazione migliore del nostro corpus ideale e programmatico, dobbiamo interrogarci sulla strategia di fondo da affiancare ai contenuti.

Cosa voglio dire?

Voglio dire che noi non possiamo seguitare a fare solo ciò in cui siamo bravi. Sarebbe come se una donna, bellissima ma molto ignorante, passasse tutto il suo tempo davanti allo specchio, anziché sui libri a farsi una cultura. Sceglierebbe, sbagliando, la strada più comoda, ma non la strada di una crescita personale.

Cari Amici, noi siamo – rispetto alla bella donna – messi esattamente al contrario: siamo sapientissimi, ma poco capaci di dare una buona immagine di noi.

Contenuti
I Repubblicani sono forti nei contenuti. Lodevole l’impegno del Prof. Gallo e degli amici ‘tesisti’. Ma questi sono sforzi che riescono in maniera sciolta dal partito. Come alla bella donna mettersi il trucco.

E allora? E allora, cari amici, è venuto il tempo di capire su cosa dobbiamo concentrarci. Su qual è il nostro punto debole, il nostra lacuna. Dobbiamo, per crescere, porre l’attenzione a migliorarci su ciò per cui siamo meno tagliati.

La nostra più grave lacuna, amici, non è la collocazione politica.

Messi così, se stessimo dall’altra parte o nel terzo polo, avremmo lo stesso deficit funzionale. Un deficit che ha un nome e un cognome: immagine e comunicazione.

Facciamo un passo indietro. L’altra sera un caro amico mi rivolgeva questa domanda: "secondo te, la politica riesce a stare al passo con i tempi, oggi così rapidi e frenetici?" Gli ho risposto che no, non ce la fa. In Italia soprattutto. Ma ciò non toglie che l’obiettivo da perseguire sia quello di una tendenziale sovrapposizione tra modernità e politica.

Cioè, un partito non è una monade, isolata dal contesto ed autosufficiente. Un partito è come un biscotto, che, intinto nel latte del mattino, inesorabilmente lo assorbe e ne prende il sapore.

Oggi, il liquido nel quale siamo immersi ci richiede uno scatto di reni. Ci chiede di dare un’immagine aggiornata e aggressiva ai contenuti.

Conseguenze
Il che comporta due conseguenze:

la scelta di una leadership agguerrita, anche intesa, Segretario, come leadership collegiale; un gruppo adatto all’operazione che abbiamo in mente.

l’individuazione di 3 - 4 temi forti e proposte politiche capaci di rimettere il partito al centro dell’attenzione pubblica.

Quali temi?

Noi non possiamo essere qualunquisti. Anzi, siamo, da sempre, l’antidoto al qualunquismo, inteso come banalizzazione dei problemi reali.

Ma stiamo attenti: in questo momento di afasia della politica, dobbiamo essere capaci di scendere all’empireo nel quale spesso amiamo collocarci e di indicare soluzioni concrete a problemi concreti.

L’altro giorno un amico osservava che per fare politica bisognerebbe stare a Roma. Be’, può darsi che aiuti. Ma non è andando a Roma nei salotti buoni che possiamo rintracciare le radici dell’essere repubblicani e mazziniani.

Mazzini ci imponeva un apostolato delle genti. Noi, amici, è come se avessimo preso i voti. Noi siamo dei sacerdoti laici. Ma, come tutti i preti, possiamo fare due cose: o continuiamo a dire messe in sagrestia, mangiando ostie e bevendo vino, oppure possiamo farci missionari della nostra fede. Una fede laica, fatta di libertà e di solidarietà, di comprensione e di severità, di onestà e di convinzione. Questo significa essere Repubblicani, oggi come ieri!

Si dice: ma la gente è lontana dalla politica.

E’ vero, ma in che senso? La situazione è uguale a quella di 20 anni fa, prima di ‘Mani Pulite"? L’immagine proiettata da chi fa politica è la stessa? Siamo sicuri?

Io non sono così sicuro. Fino a quell’epoca, in Italia, ce n’era stata anche troppa di politica, poi ne era sopravvenuta una troppo sporca, figlia dello yuppismo degli anni ‘80… ma oggi? Se voi tornate a casa e dite a qualcuno dove siete stati, cosa vi risponde? Nel 1990, forse, avrebbe detto: politici tutti ladri. Sapete cosa vi risponde oggi? io non mi interesso di politica.

La visione non è più una visione (solamente) di corruzione diffusa, ma è una visione di distanza, di distacco, di autoreferenzialità.

Di una casta che parla solo di se stessa o degli scandali di se stessa. Una politica da buco della serratura.

Caratterizzazione
Quindi? Un partito piccolo, per definizione, deve possedere una forte caratterizzazione, deve bucare il video, avere proposte dirompenti e comprensibili da tutti. Se no, è morto.

Ma, attenti, anche l’originalità, intesa come novità, è divenuta importante: il nucleare, la nostra vecchia battaglia, è ancora attuale, ci mancherebbe; ma oggi formazioni politiche immensamente più grandi, con la loro voce assordante, zittiscono il nostro pigolio.

E’ nel silenzio, invece, che dobbiamo pigolare, per farci sentire. Dobbiamo percorrere strade mai battute. Dobbiamo conquistare il West. Gli altri posti sono già tutti occupati.

Berlusconi ieri, nell’intervento ha detto una cosa vera: le idee repubblicane hanno storicamente trionfato. Ha ragione. Oggi le nostre idee sono idee condivise e diffuse. Su quelle, ci resta solo il compito di vigilare; di vigilare sulla limpidezza dei convincimenti sbandierati a parole, ma traditi nei fatti: perché tra i democratici ci sono ancora dei comunisti e tra i sedicenti moderati ci sono ancora dei fascisti.

Noi non smetteremo mai di combatterli, sia gli uni che gli altri, anche quando si travestiranno da agnelli. Perché questa missione è parte della nostra fede di base, come per i licantropi è stanare i vampiri.

Alcune di queste proposte dirompenti, da veicolare e comunicare per riprendere linfa elettorale e di consenso, le voglio sottoporre al vostro giudizio:

rivoluzione fiscale: non vogliamo una tassa patrimoniale, vogliamo però che chi fa girare l’economia, chi investe, chi spende, sia favorito dal sistema: il cittadino utente e compratore deve poter ‘scaricare’ dalle tasse le spese (in parte percentuale, è ovvio). Tale riforma consentirebbe un aumento della domanda interna e, al tempo stesso, sarebbe un volano straordinario per la lotta all’evasione: fornire al cittadino un interesse ‘suo’ alla fattura creerebbe immediatamente un circolo virtuoso per il sistema tributario.

Rivoluzione liberale: riduzione della spesa pubblica e dei pubblici investimenti partendo dalle multiutility: da ACEA ad Hera. Perché lì si annida il vero conflitto di interessi, tra controllore e controllato. Tra amministrazioni pubbliche che guadagnano alzando le bollette e cittadini che ricevono una spaventosa tassazione indiretta;

Diritto all’eutanasia: una battaglia laica, di rispetto della dignità umana anche nel momento più delicato, quello della dipartita. Una legge che vada al di là del solo testamento biologico e che, premendo un bottone, permetta al cittadino che lo vuole di rivendicare la proprietà su se stesso, perché egli si sente "umano troppo umano" e la sua vita non appartiene ad altri;

Rivoluzione giustizia: portiamo a compimento il progetto che fu del nuovo codice di procedura penale, e cioè l’avvicinamento al sistema accusatorio di stampo anglosassone. Il magistrato divenga solo arbitro imparziale e sia una giuria di ‘pari’ giudice del fatto: colpevole o innocente. Non sia più un magistrato eletto per concorso a stabilirlo, ma liberi cittadini su liberi cittadini;

Web
Libertà sul web: preso atto dell’importanza e del compito mondiale dello strumento internet, sospendiamo, nella rete, la vigenza del diritto d’autore. Internet è lo strumento capace di avvicinare nazioni e popoli e di globalizzare il sapere, la cultura e l’arte. Non deve avere lacci e lacciuoli.

Ampliamento democratico: nell’ambito della riforma federale dello Stato, che responsabilizza i territori sul prelievo fiscale e sulla spesa pubblica, siano i cittadini mediante elezione a scegliersi (per partire) il direttore generale della propria ASL e del Tribunale: la sanità è pubblica e la giustizia è amministrata in nome del popolo. Oggi, però, il popolo non controlla o amministra nulla. Da domani anche il direttore del centro di spesa sanitaria risponda davanti alla comunità delle gestione dell’ospedale, delle liste d’attesa e delle lungaggini. Democrazia è responsabilità, burocrazia è negazione della responsabilità.

Il rinnovamento generazionale.

Non confondiamo il rinnovamento del gruppo dirigente con del volgare giovanilismo.

Affidare, così, ad un implume giovanotto le redini del partito, sarebbe come dare una Lamborghini in mano ad un neopatentato.

Senza l’aiuto, il supporto ed il consiglio degli amici con maggiore esperienza, non si va da nessuna parte. Non c’è la rottamazione politica, ed è proprio questa la fortuna di un Repubblicano: che, per quanto scalpiti per arrivare, sa che la parola di un amico più vecchio di lui va ascoltata, rispettata e, a volte, anche temuta.

Ecco perché, caro Segretario, io credo che il Partito Repubblicano – al di là delle discussioni interne e, a volte, delle asprezze del confronto – Ti debba davvero molto. Io per primo.

Certo hai commesso degli errori; chi non ne commette? Ma dobbiamo assolutamente riconoscertTi che li hai sempre commessi in buona fede, guardando dritto al bene della tua seconda famiglia: il PRI!

Siccome, senza che io ti avessi chiesto nulla, mi hai voluto al tuo fianco – e forse questo è uno dei grossi errori che hai commesso – io mi permetto un’esegesi del tuo pensiero. Credo di aver intuito due cose.

Ciclo
Tu pensi che sia finito un ciclo, il ciclo della tua guida del partito.

Dopo dieci anni di onorato servizio, vorresti lasciare la guida di questa bellissima platea ai tuoi successori.

Ma, come servitore del partito – e qui sta la seconda preoccupazione che credo galleggi nel tuo animo – hai un cruccio: la nave che ho guidato nel suo viaggio attraverso l’oceano – ti domandi – è arrivata in porto e posso scendere, oppure manca ancora un tantino così per assicurarle l’approdo? E’ il momento giusto per lasciare il timone al nuovo nocchiero o non è ancora finita la traversata?

Questo lo puoi sapere solo tu.

Ti posso solo dire che i marinai sono pronti a riprendere subito il mare. Ma credono che non sia solo un diritto, ma anche un dovere, per il capitano che sbarca, quello di incoronare il suo successore.

Perciò, noi marinai ti ringraziamo. Ti chiediamo solo il permesso di sciogliere le vele al vento e di cominciare un altro avventuroso viaggio repubblicano: cras ingens iterabimus aequor, come scritte Orazio nelle Odi, "domani di nuovo solcheremo l’immenso mare"!

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Ethel Porzio Serravalle
Cari amici repubblicani, io ritengo molto giusto ciò che è stato detto qualche minuto fa sul desiderio di molti amici del Pri di sentire i nostri interventi. E’ giusto, ci eravamo iscritti tutti a parlare. Io ruberò pochissimi minuti ma è giusto che voi sappiate chi sta per entrare a far parte della grande famiglia repubblicana. Chiarisco subito che io sono uscita del partito all’inizio degli anni ‘90 per ragioni che sono quelle che sinteticamente e molto bene ha detto Oscar Giannino prima. Noi sappiamo cosa è accaduto all’inizio degli anni ‘90. E io mi sentivo in difficoltà con la mia etica politica a pensare di poter essere stata in un luogo coinvolto in situazioni difficili. Per un lungo periodo ho seguito ovviamente le vicende politiche, ho fatto il sottosegretario nel governo tecnico: e anche lì l’etica politica è stata messa a dura e costante prova in tutti i momenti. Quando Luciana Sbarbati ha dato il via al Movimento, mi sono sentita più sicura di me a cominciare con un movimento, prima di ritornare in un partito. Ho detto questo perché io non sono una pecorella smarrita che torna all’ovile. Primo perché non ho niente della pecora, né tampoco smarrita, perché fortunatamente il Pri non è un ovile, né ci sono pecore da ritrovare.

Perché ci ricomponiamo? Perché la situazione di questo paese – non lo dico perché è stato detto in tutti gli interventi - è veramente di grande difficoltà. E chi è repubblicano nell’animo sa che in questi momenti il contributo deve essere dato a prescindere da tutte le complessità che comunque dovremo affrontare in rapporto alle collocazioni politiche. Tuttavia c’è sicuramente – e lo si è avvertito da tutti gli interventi – un terreno comune su cui si può lavorare. Terreno comune che io, a suo tempo, ho contribuito a costituire, essendomi occupata dal ‘75 al ‘90 della politica scolastica e universitaria del partito. E allora trovavamo una notevole corrispondenza nei cittadini. E se torno non è perché mi aspetto delle poltrone, torno perché mi rimetto a lavorare come ho lavorato allora, percorrendo l’Italia in lungo e in largo dovunque mi si chiamasse per fare riflettere sulla centralità dell’istruzione e della cultura rispetto al futuro del paese. Non solo il futuro economico, che dipende tantissimo dal livello di istruzione e cultura. Ma la coesione interna, la capacità di convivere su posizioni diverse – perché è legittimo avere posizioni diverse – senza perciò diventare avversari. Il tifo lo lasciamo agli stadi, quando due squadre si scontrano. Io tra l’altro sono milanista, quindi sono al di sopra di ogni sospetto.

Torno per lavorare, non mi aspetto né poltrone né poltroncine, anche perché io ho ancora un lavoro che mi dà molta soddisfazione e mi occupo dei temi che amo. La cultura, l’istruzione e come queste cose concorrono –torno a dirlo – anche allo sviluppo economico di questo paese. Non avrei fatto questo passo - è molto importante quello che sto per dire – se non avessi verificato che la riforma della scuola che è stata fatta, io la condivido. La condivido ma ritengo che sia necessario il nostro lavoro, a livello territoriale, perché quei due valori che ci sono dentro esplicitati, del merito e della qualità, non prosperano soltanto perché c’è una legge, ci sono i provvedimenti attuativi, ma prosperano se la società, i genitori, le famiglie, gli abitanti del territorio sanno che cosa si sta cercando di fare per migliorare una situazione che era pessima anche negli anni d’oro della prima Repubblica, perché come repubblicana io ho dovuto criticare costantemente – e lo provano le annate della "Voce Repubblicana" su cui scrivevo – perché abbiamo dovuto contrastare, astenerci e votare contro su una quantità di cose. La situazione critica attuale è il risultato di cinquant’anni di pessima politica scolastica. Di questo io avevo convinto a suo tempo Ugo La Malfa che chiese – poco prima di morire – il ministero dell’Istruzione per Spadolini. Purtroppo, dopo la morte di La Malfa, venne chiesto a Spadolini di lasciare il ministero dell’Istruzione che per la prima volta non era stato appannaggio di un democristiano. Io vi dico cose che sono accadute e che vogliamo che riaccadano perché ce le meritiamo. Quindi metto a disposizione le competenze che ho, il mio tempo, la mia capacità di scrivere. Scriverò per "La Voce", vi verrò a trovare quando mi inviterete e insieme cercheremo di fare qualche cosa di degno della tradizione repubblicana. Dove ci collocheremo? Gli eventi ancora non li possiamo immaginare. Ritengo che noi dobbiamo vendicare anche lo scippo che ci è stato fatto del partito della democrazia di cui parlavamo con Spadolini, e che non è il Partito democratico che è venuto fuori. L’idea liberaldemocratica ci può far recuperare anche quella memoria. Buon lavoro e felice di avervi ritrovati.

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Giovanni Satta
Da almeno 10 anni l’Italia è ferma. Da due anni la Banca d’Italia, l’Istat ed il Fondo Monetario Internazionale segnalano il blocco dello sviluppo con questi numeri: il 10% della popolazione detiene il 50% della ricchezza; oltre due milioni di lavoratori sono disoccupati; il 40% dei giovani sono precari, il PIL è stazionario da più di 15 anni, ed il PIL pro-capite è sceso al livello del 1998.

Questi dati rappresentano un salto indietro di due secoli nella condizione economica e sociale ed evocano l’interrogativo di Mazzini sulla industrializzazione dell’Europa: "perché il nuovo impulso comunicato all’industria ed al commercio ha creato, non il benessere dei più, ma il lusso di alcuni?" (prefazione di Mazzini al suo "Doveri dell’Uomo).

Un problema riemerso dopo duecento anni, che certifica l’impoverimento del Paese ed equivale ad una sentenza di fallimento per la nostra economia e la nostra società.

Un problema che meriterebbe una reazione di emergenza delle classi dirigenti, le quali continuano a giocare al bipartitismo radicale, al rimpallo delle responsabilità senza concludere niente.

La ricostruzione e lo sviluppo
A fronte di questa inerzia, noi più vecchi abbiamo il dovere di ricordare che tra il ‘45 e gli anni ‘60 la Prima Repubblica ricostruì il Paese devastato dalla guerra, e lo arricchì nel lusso e benessere dei più.

Lo fece scommettendo su:

1) i valori di una Costituzione condivisa (quindi coesione sociale, nonostante l’atmosfera da "guerra fredda" e la "cortina di ferro") e del "manifesto di Ventotene" (l’Europa pacificata, da integrare dopo secoli di guerre);

2) la ricostruzione, lo sviluppo industriale, l’export ed il libero scambio (il new deal rooseveltiano, ma anche la cooperazione Costa/Di Vittorio, e Costa/La Malfa);

3) un corpo di politiche industriali e strumenti finalizzati allo sviluppo (Partecipazioni statali per l’import/export, l’industria di base e le materie prime; beni e servizi pubblici per produrre infrastrutture, trasporto, telecomunicazione; istruzione tecnica e professionale per il lavoro; politecnici e università per la ricerca e l’innovazione).

Ed i risultati furono straordinari: debellate disoccupazione ed emigrazione di massa; migliorate le condizioni del ceto medio e dei lavoratori. E tutto il mondo gridò al "miracolo economico italiano".

I successivi venti anni: fine della corsa
Accecato dal "miracolo" e dal quinto posto tra le potenze industriali, il Paese non capì la crisi produttiva ed energetica degli anni ‘70 ed il potere di devastazione dell’inflazione a due cifre.

Invano Ugo La Malfa ammonì che il Paese rischiava di "deviare dalla costruzione del proprio avvenire" e propose un periodo di austerità e di rigorosa politica dei redditi, per coniugare lo sviluppo con l’equità sociale grazie all’equilibrio tra sviluppo, inflazione e salari.

La sua morte spense il suo monito, e negli anni ‘80 i cittadini continuarono nell’illusione che "la barca va" mentre la realtà si regge su un cocktail di evasione fiscale ed indebitamento pubblico, nell’economia reale foriero solo di stagflazione.

Questa illusione condusse, in una sola legislatura, al raddoppio del debito e all’agonia della "prima Repubblica", miseramente conclusa nei primi anni ‘90 con la vicenda di "tangentopoli", in cui l’estorsione dei partiti sulle imprese sopperiva ad un debito pubblico fuori misura e non più allargabile.

Inconsapevolmente verso la globalizzazione: declino e debito
Mentre in Italia la "barca va", tutto il mondo segue l’illusione che il valore si possa creare allentando le regole della finanza e dei mercati (illusione cui dobbiamo la crisi mondiale del 2008) piuttosto che rischiando il capitale, producendo beni e servizi e faticando per venderli, ed in parallelo si apre la liberalizzazione dei capitali e del commercio mondiale, cioè l’era della globalizzazione.

Anche in Italia – all’insegna del bipartisan - si apre alle deregolamentazioni, liberalizzazioni e privatizzazioni, senza regole, mercati e strategie. Il complesso integrato di politiche e strumenti che aveva fatto il "miracolo italiano" viene venduto, pezzo per pezzo, a prezzi di liquidazione, con risultati per gli acquirenti ma disastrosi per le piccole imprese e per le nostre ex Partecipazioni statali che vengono spolpate e rimangono locali, piccole, gracili, sottocapitalizzate, cioè non competitive.

Intanto il mercato globale compie un grande salto di scala poggiato su tre pilastri: produzione, distribuzione e capitalizzazione, e dell’economia italiana rimangono soltanto deindustrializzazione e declino, stagnazione da indebitamento oltre il PIL.

Nonostante questa situazione, si coltivano ancora grandi chimere – addirittura una Seconda Repubblica - contando su una ricchezza che non c’è più.

La seconda Repubblica: mai decollata
Il dopo tangentopoli vede alcuni tentativi virtuosi quanto brevi: Amato con una manovra da 90.000 miliardi di lire, Ciampi con la politica dei redditi e Prodi con la stretta sul debito necessaria per l’ingresso nell’Euro. Questi tentativi vennero abbandonati per il grande progetto della Seconda Repubblica e del bipolarismo. Un progetto-favola di grandi sogni ed avventure come la riscrittura della Costituzione, la maggior presenza militare nelle zone calde del mondo, le grandi opere, la diminuzione delle tasse, le riforme del welfare, della scuola, dell’Università ed ogni sorta di bengodi per megalomani.

Il tutto in un ambiente istituzionale confliggente con la Costituzione esistente, (il partito che vince è blindato dal premio elettorale sul quale pretende di fare leva per cambiare unilateralmente non solo le grandi scelte ma anche la Costituzione) ed escludente ("noi abbiamo vinto e voi potete stare a casa per i prossimi cinque anni, qualunque cosa succeda") che genera e consolida lo stallo perché i contendenti non sono coinquilini e ciascuno non ha il coraggio di imporre i sacrifici necessari. In breve, un libro dei sogni mai divenuto realtà perché privo dell’essenziale: costituzione condivisa e risorse adeguate.

Perciò, dopo sedici anni di Seconda Repubblica, i verdetti descritti dal Fondo Monetario Internazionale e dal Governatore della Banca d’Italia narrano spietatamente non solo il declino economico e sociale ma anche la palude politica che li inchioda.

Ma questo limbo di stagnazione ci impedisce di partecipare alla corsa della nuova divisione internazionale del lavoro ormai aperta dal successo della globalizzazione.

Ciò propone a tutto il mondo l’alternativa secca tra competere in campo aperto per conquistare nuovi orizzonti o rimanere nel proprio guscio ad attendere una improbabile ripresa.

Che fare? la scelta del guscio o quella del Governo di Emergenza Nazionale?
L’aria che tira nel Bel Paese sembra convergere con tacito consenso bipartisan verso la seconda ipotesi, quella del guscio inerte, coltivatore di chimere, in attesa che qualcosa accada, senza proattività, strategie, progetti, investimenti, piani industriali, strutture e azioni di rilancio.

Invece un vero Governo di Emergenza Nazionale può spezzare lo stallo scegliendo il rilancio dell’economia reale prima di affrontare un nuovo assetto costituzionale, perché la ripresa crea il coinvolgimento, la galvanizzazione e la collaborazione di tutte le forze disponibili, e predispone alla condivisione sociale e politica (Germania, Francia, Gran Bretagna hanno già tracciato il loro percorso e sono in marcia, mentre noi rimaniamo nemici e ci logoriamo nella lotta reciproca).

Gli obiettivi di un simile Governo possono essere così delineati
1) ridurre il Debito Pubblico fino al 60% del PIL, nell’arco di tre anni (caccia all’evasione, privilegio alla spesa strategica per la ripresa, azzerare il sostegno alla domanda e le "delibere in copertina", reprimere il malaffare segnalato dalla Corte dei Conti, ecc)

2) Sistema Italia per competere. Dopo 15 anni di stagnazione economica e di sfaldamento del mercato del lavoro e due anni di crisi globale, occorre un governo che scenda in campo per "fare squadra", puntando sull’inclusione, negoziando anche sacrifici ma con "politica dei redditi" e speranza del futuro e definendo le strategie della produzione (scegliere prodotti di punta e costruire un tessuto produttivo e promozionale solido attorno ai campioni del Made in Italy, come suggerisce Confindustria)

3) agganciare la globalizzazione ed accrescere l’efficienza (sviluppo della logistica internazionale decisiva per l’import/export nel mercato globale, ed efficientamento delle città per essere nel mondo).

Ripetere il "miracolo" è possibile, basta lasciare indietro le faide bipartitiche, e le logiche calcistiche, tenere dritta la barra del timone (contro lo sperpero) e motivare imprese e lavoratori.

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Aurelio Ciccocioppo
E’ del 4 settembre 2009 la lettera inviata da Giorgio La Malfa al Presidente del Consiglio per manifestare il suo disagio, la sua delusione nei confronti dell’attività di Governo, in primo luogo nei confronti della politica economica, del mancato riordino della pubblica amministrazione (eliminazione delle Province), della riforma federalista e della politica estera.

Era questa una posizione strumentale o la messa a fuoco di un problema vero dell’attuale vita istituzionale, politica e morale del Paese? A mio avviso, le considerazioni di La Malfa rientravano pienamente nella visione che i repubblicani hanno sempre avuto sulle questioni contestate e a me è sembrata corretta l’affermazione che "per i repubblicani si chiudeva una fase ed era necessario aprire una riflessione sul modo nel quale realizzare nel Paese la svolta politica indispensabile per fermare il declino italiano che dura da quindici anni". Con queste parole La Malfa concludeva la lettera inviata al "Corriere della Sera" alla fine di settembre del 2009 per spiegare le ragioni del suo distacco dalla maggioranza di centro-destra e dal Governo.

Può darsi che, sotto il profilo formale, La Malfa, nel prendere una decisione autonoma, abbia commesso una scorrettezza nei confronti della Direzione del partito, ma non si può negare che i problemi da lui posti siano di attuale importanza.

Del resto, in quest’altro anno e mezzo il deterioramento politico, istituzionale e morale si è ulteriormente aggravato.

E’ evidente che il voto di La Malfa contro la fiducia al Governo sia stata una logica, coerente, inevitabile conseguenza, del fatto che molti repubblicani – dalla Lombardia alla Sicilia – che non hanno mai condiviso l’alleanza col centro destra, ma che sono rimasti nel partito oppure si sono messi semplicemente in disparte, hanno accolto con la speranza che si potesse essere all’inizio di una svolta nella vita politica del Pri.

Non si capisce perché la Direzione del partito si sia chiusa in una risentita, irritata condanna dell’iniziativa di La Malfa, sino al ricorso all’azione punitiva con la sospensione e la denuncia al Collegio dei Probiviri. La Direzione non ha valutato che qualcosa era profondamente cambiato rispetto agli ultimi esiti congressuali, da Bari in poi, e che la decisione di La Malfa andava incontro alle speranze di ricomposizione della diaspora repubblicana, di costituzione nel Paese di un’autonoma forza liberaldemocratica e di recupero di un elettorato disperso.

Era necessario, a mio avviso, aprire subito un dibattito tra i repubblicani nell’unica sede legittima, il Congresso, tanto più che si trattava di riconsiderare una linea politica che durava ormai da dieci anni.

Il Congresso, da molto tempo convocato, è stato invece più volte rinviato perché le "tesi" non erano pronte e, l’ultima volta, per la coincidenza del voto di fiducia al Governo. Queste sono state le giustificazioni.

I repubblicani devono perciò essere riconoscenti verso gli esperti che con la preparazione delle tesi congressuali hanno aggiornato le posizioni programmatiche del partito.

E’ stato certamente un lavoro molto importante, ma ho qualche dubbio che ci sia qualcuno dei nostri attuali alleati disposto ad ascoltare e discutere le nostre proposte.

Nei nostri congressi abbiamo sempre discusso di tutto, anche di temi, ma soprattutto di politica, e quello che oggi ci interessa di più è sapere cosa faremo domani, quali saranno le scelte politiche del Pri di fronte al perdurare della crisi politica, morale ed istituzionale del Paese.

Nella sua relazione d’apertura del Congresso, Nucara ha sottolineato più volte e con orgoglio la sua "calabresità".

Si sente in lui la sofferenza per una Calabria, per un sud, sempre più depressi.

Vorrebbe un Governo più attento ai problemi del sud. Lo vorrebbero anche tutti quelli che hanno dovuto lasciare il sud, con la speranza di appartenere all’ultima generazione costretta ad emigrare.

Purtroppo la situazione è peggiore di quella degli anni cinquanta e a emigrare non sono più braccianti, salinari e zolfatari, ma laureati e ricercatori.

Il Ministro Tremonti, nella sua lunga intervista con Stefano Folli, ci ha rivelato che l’Italia è un paese a economia duale.

Forse il Ministro se n’è accorto solo adesso, ma i repubblicani questo lo sanno da oltre 50 anni, da quando Francesco Compagna e Ugo La Malfa si battevano per il riscatto del Sud.

Il Ministro ne ha anche spiegata la ragione. Ha detto che il Nord è virtuoso; ha i grandi canali di comunicazione, da est a ovest e da sud a nord, ed è per questo l’area più ricca dell’Europa.

Invece, il Sud non è virtuoso; è in mano alla criminalità organizzata e per questo è l’area più povera del Mediterraneo. E non ha niente, niente strade, niente ferrovie. In Sicilia si viaggia ancora su un solo binario.

Cristo si è fermato a Napoli, ha detto una volta Nucara.

Insomma, Tremonti ci ha confermato che l’Italia è divisa in due.

Che cosa ha però voluto veramente dire Tremonti, forse che in queste condizioni la secessione avverrà di fatto?

Egli, per la verità, ha cercato di essere rassicurante e ha detto che il Governo non vuole la spaccatura del Paese, ma non è chiaro cosa in concreto questo Governo voglia fare.

Di tanto in tanto dice che farà il Ponte sullo Stretto, che, posto che venga veramente realizzato, vista la situazione, non potrà che essere un’inutile opera di regime, una cattedrale nel deserto.

Intanto affibbia agli italiani un federalismo che gli ospiti, invitati a commentare le nostre tesi, nella seduta iniziale del Congresso, hanno definito un "non federalismo" e che, è certo, non risolverà i molti problemi del Paese, ma finirà per aggravarli.

Francamente non c’è nulla che possa convincere a rimanere nell’attuale maggioranza di governo.

L’Italia ha ancora bisogno dei repubblicani, ne sono convinto, ma perché il progetto di costruire una forza liberaldemocratica, capace di incidere realmente nel processo di sviluppo politico, culturale e sociale dell’Italia e di unificazione europea, sia credibile, è necessario abbandonare subito la coalizione di centrodestra e tornare - in piena autonomia e nella auspicata ricomposizione di tutte le sparse anime del repubblicanesimo italiano - al centro della vita politica del Paese.

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Renato Traquandi
Non sono stato presente al Congresso di Roma. Me ne scuso, ma importanti impegni di famiglia, presi in precedenza, mi hanno impedito di farlo.

Alcuni degli amici che mi conoscono, non sapendo di questa mia giustificazione, si sono chiesti se avessi avuto dei problemi di schieramento, pro questo o pro quello, o se avessi dei dubbi sul futuro del partito, privo di risorse com’è.

Faccio i miei complimenti sinceri a Francesco Nucara e dò il più caloroso benvenuto alla Luciana Sbarbati, augurando loro buon lavoro, di cuore!.

Il mio contributo........lo esterno subito.

Leggo su "La Voce "che il nostro problema è dove collocarci, con Berlusconi, con Casini, con Bersani? Non si sa.

Io ho questa proposta da fare.

Teniamo presenti tre documenti storici: La Costituzione della Repubblica romana (1849); la carta Costituzionale repubblicana (1946) ed il Manifesto per la Nuova Repubblica, stilato da Pacciardi e controfirmato da 40 personalità italiane (1964). Basandoci sulla storia del Partito Repubblicano Italiano e dei suoi uomini, da Mazzini a Spadolini e Ugo La Malfa, una Commis-sione composta da membri del Consiglio nazionale del PRI componga e stili un programma, un nuovo manifesto, repubblicano, laico, democratico, concreto, moderno e riformista.

Punti fermi di questo "Programma per l’Italia che avanza" saranno la riforma presidenziale con il Capo dello Stato e dell’Esecutivo eletto dal popolo con metodo maggioritario uninominale, tramite collegi interprovinciali. Abolizione degli Enti Provincia ed istituzione di Zone metropolitane, con incentivazioni all’accorpamento di piccoli Comuni.

Separazione delle carriere dei giudici: gli Organi inquirenti inquadrati in organici a concorso pubblico per titoli ed esami, con possibilità di carriera come Procuratori della Repubblica, che devono sottoporsi a corsi qualificanti d’aggiornamento e a controllo di apposite Commissioni miste politico-professionali; gli Organi giudicanti, invece, scelti tramite libere elezioni popolari su singoli nomi che si presentano in base a specifici requisiti.

Il ramo parlamentare, chiamato a promulgare Leggi dello Stato, sarà scelto con suffragio uninominale, per dar modo anche alle minoranze di esprimersi; ché non è scritto da nessuna parte che sia la maggioranza soltanto ad avere buone idee. Abolizione del termine "onorevole" per i membri della camera, che saranno indicati con il termine" deputato", più conforme. Revisione del finanziamento pubblico in senso di risparmio e minori indennità ai parlamentari.

Rivisitazione, al fine di renderle più utili e concrete, delle leggi sul Fisco, sull’Ambiente, la Scuola, la Sanità, la Previdenza sociale, il Lavoro, la Comunità Europea, per la quale vanno attuate una buona volta le normative sui diplomi di laurea, gli ordini professionali e tutto quanto oggi costa una fortuna per le multe che l’Italia paga.

Una volta redatto tutto questo, arriva la fatica più grande. I repubblicani italiani, tutti, spendano le energie per andare in piazza, e presentare ai cittadini italiani il frutto del lavoro svolto.

Altro che alleanze, altro che coalizioni, altro che raccolta di firme per le candidature!

Secondo www.sentierirepubblicani questo è da fare, ed al più presto.